Terapeuti o pescivendoli

Un proverbio cinese recita: “Dai un pesce a un uomo e lo nutrirai per un giorno. Insegnagli a pescare e lo nutrirai per tutta la vita”. Sul mercato psicoterapeutico esistono ormai moltissimi modelli di terapie. Le tecniche vengono spesso elevate a metodi veri e propri, spesso secondo logiche di profitto che prevedono costosi corsi di formazione, senza che vengano mai esplicitate la sottostante visione dell'uomo, della psiche, della personalità, il metodo e il concetto di cura o guarigione su cui fondarlo e misurare i risultati. Tutto risulta sempre rigorosamente evidence-based, ma gli psicologi sanno bene come in questo campo della conoscenza sia possibile far parlare i dati come si vuole. In questo panorama sempre più variegato e un pò desolante, le psicoterapie sembrano però dividersi fondamentalmente in due grandi categorie: in primo luogo, le terapie che rispondono alla fame del paziente dandogli pesci o tecniche per pescare (strategie, informazioni, consigli, corsi on-line, etc.), non risolvendo mai veramente il suo problema (ma solo i suoi sintomi, almeno finchè dura) e rendendolo oggetto di un apprendimento solo apparentemente generoso (ma che spesso risponde in realtà ad un bisogno mal governato del terapeuta); in secondo luogo le terapie che, al contrario, suscitano nel paziente la voglia di imparare a pescare, e che lo considerano Soggetto della cura a costo (un costo apparente, in realtà liberatorio) di rimandarlo inizialmente a casa ancora affamato. Si potrebbe aggiungere che il paziente può pescare i pesci che vuole nella maniera che preferisce, sperimentare tecniche e strumenti nuovi e diversi, purchè siano i suoi. Questo secondo tipo di terapie sono, o dovrebbero essere, le terapie psicoanalitiche, che portano in sè una visione dell'essere umano che rende giustizia alla sua complessità. Un essere umano dotato cioè di coscienza, inconscio (ormai anche le neuroscienze lo danno per assodato), pensieri, fantasie, sogni, affetti, emozioni, sentimenti, relazioni, comportamento, bisogni, desideri, immerso in una data cultura e gruppo di appartenenza. Nella psicologia analitica intersoggettiva, in particolare, l'essere umano è visto come Soggetto in continuo divenire, non assoggettato all'inconscio e ai bisogni in quanto potenzialmente capace di una continua funzione di sintesi (riflessiva e auto-riflessiva) grazie alla quale, reggendo la tensione tra coscienza ed inconscio, giunge alla possibilità di generare nuove creazioni e nuovi simboli. La difficoltà sta nel mantenere coerente questa visione dell'uomo con il metodo e con la tecnica di conduzione delle sedute. Metodo e tecnica cambiano certo in relazione al tipo di personalità del paziente e al suo livello di gravità (di qui l'importanza della diagnosi), ma per essere sintetici mi sembra illuminante la visione di Silvia Montefoschi, che soleva dire che bisogna sempre "mettere il Soggetto con le spalle al muro" rimandandogli continuamente la responsabilità sulla totalità di se stesso, dai suoi comportamenti ai suoi sogni: “Il nuovo modello di rapporto che quindi si prospetta, nel momento in cui si rompe quello dell’interdipendenza fondato sul reciproco appagamento dei bisogni, è un modello di rapporto intersoggettivo che su null’altro si fonda se non sulla reciproca esistenza. […] Nell’instaurarsi dell’intersoggettività si colloca il momento dell’azione terapeutica, il suo strumento e la sua finalità”. (Silvia Montefoschi, Opere complete).

  

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